AUTONOMIE REGIONALI: LA RATIO DIETRO AL FENOMENO

Chi conosce il percorso politico di Luca Zaia, rieletto presidente della regione Veneto per la terza volta consecutiva, certamente non si stupirà delle percentuali “bulgare” – ma ormai sarà il caso di chiamarle “venete” – con le quali si è imposto sul suo primo sfidante Arturo Lorenzoni, candidato del centrosinistra. La coalizione del “governatorissimo” di Bibano di Godega ha fatto segnare un plebiscitario 76,8% distaccando il rivale di ben 61 punti percentuali e relegando i restanti avversari a numeri a una sola cifra, se non addirittura ai decimali. Sarebbe ingeneroso e semplicistico applicare il solito schema dei leghisti “rozzi e ignoranti” ai quasi 1.900.000 elettori che lo hanno premiato, i veneti chiedono oggi qualcosa che non è più solo una loro peculiare prerogativa.

Da sinistra: Stefano Bonaccini, Luca Zaia e Roberto Maroni firmando l’accordo preliminare Stato/Regioni

Zaia non lo nasconde, il suo obiettivo è l’autonomia, un’autonomia che a suo dire vorrebbe mantenersi entro i limiti previsti dalla Costituzione. Niente colpi di mano o azioni dimostrative, insomma, niente assalti al campanile di San Marco, per altro la stessa autonomia che chiede anche un altro governatore certamente lontano per cultura e tradizione dalle posizioni leghiste, il democratico Stefano Bonaccini, Presidente dell’Emilia-Romagna. Le posizioni di Bonaccini, decise a suo tempo, seguirono e continuano a seguire un percorso alternativo rispetto a quelle venete. Nel 2017 Veneto e Lombardia votarono i referendum consultivi sull’autonomia che videro in entrambi i casi una schiacciante vittoria del sì, Bonaccini, al contrario, saltò il passaggio referendario e preferì attivare la procedura per l’autonomia differenziata prevista espressamente dalla Costituzione, non senza aver prima ottenuto il mandato dalla Giunta regionale in accordo con le parti sociali. Sicché Maroni e Zaia si trovarono a percorrere in ritardo lo stesso iter istituzionale avendo in più stanziato i fondi per i referendum (la Lombardia spese per il suo referendum online quasi 50 milioni di euro, il Veneto 14).

Ma in cosa consiste, in buona sostanza, questa autonomia? Secondo Bonaccini: «È giusto premiare le Regioni con i conti in ordine e un alto tasso di efficienza nei servizi. Le ulteriori competenze che chiediamo ci permetteranno di investire e fare ancora meglio in quattro ambiti: lavoro e formazione, impresa, ricerca e innovazione». Dichiarazioni, le sue, non dissimili nella forma dalle richieste che Zaia presentò nel 2019 al Ministro per gli affari regionali: più competenze in materia di «ricerca scientifica e tecnologica e raccordo con il sistema universitario regionale e tutela della salute; protezione civile e governo del territorio, infrastrutture, porti e aeroporti; produzione, trasporto, distribuzione energia e gestione del demanio». In entrambi i casi la richiesta fu di una maggiore autonomia nella gestione dei fondi e delle risorse fiscali, nel caso del Veneto si chiedeva esplicitamente anche un maggior controllo sulle politiche d’immigrazione «la regione chiede di poter definire e programmare la quota di ingresso dei cittadini extracomunitari».

Sullo sfondo della battaglia per le autonomie, però, si inserisce oggi il grande tema dei fondi europei destinati alla ripresa post-Covid, quei 208 miliardi, di cui 81 di sovvenzioni a fondo perduto, che verranno destinati al nostro paese, una pioggia di miliardi che le regioni sperano di intercettare, ciascuna secondo le proprie necessità e idee di ripresa, tema spinoso che già crea i primi malumori tra le regioni italiane a diversa velocità. Almeno il 34% delle risorse, secondo una clausola risalente al Decreto Sud del governo Gentiloni e sbloccata nell’ultima manovra del 2019 dal governo Conte, dovrà infatti essere destinata ad investimenti nel meridione, e di fronte alla strenna in arrivo dall’Europa la quota sembra già sbilanciata in difetto per le regioni del mezzogiorno in perenne deficit di sviluppo. L’autonomia differenziata chiesta da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna è un percorso costituzionale previsto per le regioni a statuto ordinario che differisce da quelle a statuto speciale, fra le quali figurano regioni che ricevono dallo Stato, oltre alla facoltà di gestire in autonomia il proprio gettito fiscale, un’ulteriore forma di contribuzione a titolo di solidarietà nazionale molto lontana dall’idea di autonomia disegnata dalle tre regioni del Nord, almeno sulla carta basata su principi di efficienza.

Nella sostanza, in Italia si viene a delineare un mosaico molto complesso di singole autonomie regionali, ognuna con richieste e prerogative particolari, proprio nel momento in cui il paese si appresta ad accogliere i fondi del “piano Marshall” europeo in cui la differenza la farà, ancora un volta, non tanto l’ammontare di denaro ricevuto, quanto la capacità di metterlo proficuamente a frutto. L’occasione è ghiotta e l’auspicio è che, per una volta, il tesoretto non vada sprecato da Nord a Sud in investimenti senza sbocco o in progetti ispirati a sterili rivendicazioni identitarie. Aldilà delle speranza, però, la caccia al tesoretto è aperta, se ne riparlerà in Conferenza Stato Regioni, in cui quelle del Nord già rivendicano una precedenza in quanto le più colpite dall’epidemia mentre quelle del Sud reclamano i propri diritti di zone eternamente emarginate. Un biglietto da visita, questo, che non si pone a favore della tanto auspicata autodeterminazione dei popoli.